Il disagio insediativo di due milioni e mezzo di meridionali

Analisi, rapporti, studi e ricerche da oltre un ventennio fanno il punto della situazione sullo stato di salute dei comuni italiani. Ognuno indagando con criteri propri le diverse categorie demografiche, sociali, economiche e dei servizi, inevitabilmente conclude allertando (pare inutilmente) su quel fenomeno identificato dai più come “disagio insediativo”, del quale lo spopolamento è solo la parte che meglio si presta al racconto mediatico.

Dai rapporti di Legambiente, Istat e Svimez, non da oggi, sappiamo di trovarci di fronte a una minaccia che potrebbe concretizzarsi nel giro di una manciata di anni: quella di vedere oltre mille comuni diventare ghost town, città fantasma a rischio di estinzione, nelle quali non si realizzano quelle condizioni necessarie alla minima sopravvivenza.

I contesti più deboli sono stati individuati tra gli insediamenti inferiori ai 10.000 abitanti, non più quindi solo i paesi polvere ma quelli che, al di là della dimensione, esprimono un limitato reddito pro-capite, un saldo demografico in contrazione, bassi indici di occupazione, scarsa ricchezza immobiliare e patrimoniale e un insufficiente capitale infrastrutturale. Sono le aree interne e, in alcuni tratti anche costiere, di Sardegna, Sicilia, Calabria e Basilicata, alle quali occorre sommare anche l’entroterra di Puglia, Campania e Molise. In breve, il contesto nel quale vivono quasi due milioni e mezzo di meridionali.

Paesi del Sud (spo)popolati di gentes, umanità sfrondata di parti importanti che vanno rigenerandosi altrove, rischiando di perdere l’abitudine alle relazioni e la capacità di trasmettere identità. Una società spaesata, impoverita e ridotta ad individui mimetici e insicuri.

Un impoverimento anche economico che riguarda tutto il Sistema Italia che spende ogni anno in maniera urgenziale cifre miliardarie per riparare i danni derivanti da alluvioni, frane e incendi ben sapendo che con una pianificazione ordinaria la bolletta potrebbe ridursi in maniera anche notevole.

Nel tracciare un bilancio bisognerebbe aggiungere tra i passivi anche l’impoverimento innegabile di una società che lascia andar via i propri cittadini verso le periferie delle grandi città, con costi che dovrebbero essere quantificati analizzando le spese che vengono sostenute per fronteggiare il disagio delle marginalità metropolitane. Occorrerebbe includere i costi per la perdita di capitale umano dovuta all’emigrazione, quelli per la rinuncia a una gestione attiva delle risorse ambientali e quelli per il mancato sfruttamento agricolo e boschivo di importanti pezzi di territorio.

È urgente quindi intervenire, magari non mirando alla conservazione del territorio di questi comuni così com’è, mettendolo sotto una tutela di tipo museale, ma pensandolo come una infrastruttura capace di fornire l’humus adatto per coltivare e trattenere le migliori energie. Con costi del tutto sostenibili (poche centinaia di milioni) lo Stato potrebbe indicare la direzione finanziando per queste aree, fintanto che il disagio perduri, l’esenzione totale delle imposte locali legate alle abitazioni.

Analogamente a quanto avviene in natura, laddove la ricchezza è data dalla biodiversità, possiamo dire che la ricchezza insediativa è una componente delle potenzialità del territorio quindi, anche solo per convenienza, oltre la biodiversità, dobbiamo sbrigarci a proteggere la sociodiversità.