L’agricoltura del Sud beffata dalla “variabile” padana

A dispetto di quanto si tende a credere, nell’ultimo ventennio, il settore agricolo ha sempre meno vissuto di aiuti pubblici. In materia, lo studio più completo finora pubblicato è di poche settimane fa e si tratta di un rapporto redatto dal Crea (Consiglio per la Ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) dal quale risulta che l’incidenza dei sussidi sul valore aggiunto agricolo è costantemente diminuito, passando dal 55% del 2000 al 34% del 2019. In aggiunta il report rileva che gli strumenti messi in campo, privilegiando modelli di coltivazione intensivi di grandi dimensioni, finiscono per favorire le aree settentrionali del paese e mortificare il Mezzogiorno, caratterizzato da una frammentazione aziendale più elevata. È così che Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte risultano occupare le prime quattro posizioni nella classifica delle regioni più assistite.

Si tratta di agevolazioni fiscali e contributive, fondi regionali, interventi statali. Ma la componente più rilevante, oltre il 60%, dei contributi pubblici all’agricoltura sono senza dubbio i circa 8 miliardi che derivano dall’attuazione della Politica Agricola Comune (PAC), finanziata con i fondi dell’Unione Europea.

È attorno a queste risorse, in particolar modo quelle del FEASR (Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale) spettanti ad ogni regione in base al proprio Piano di Sviluppo Rurale, che in conferenza Stato-Regioni si sta consumando in questi mesi una disfida tra le regioni del Nord e le regioni del Sud: Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia alle quali si è aggiunta anche l’Umbria. Per il prossimo settennato che partirà dal 2023, le regioni settentrionali, col malcelato sostegno del Ministro delle Politiche agricole, il grillino Stefano Patuanelli, vorrebbero che fosse introdotto un nuovo criterio di ripartizione che attribuisce un peso maggiore alla PLV (Produzione Lorda Vendibile) e che quindi favorisce le aziende inserite in territori già fortemente competitivi.

Con l’applicazione di tale variabile, tanto per fare un esempio, si vanno a premiare contesti come l’Emilia Romagna che può vantare una PVL che supera i 6 miliardi, e a penalizzare la Puglia che arriva solo a 4,5 miliardi. Poco importa se il numero delle aziende pugliesi (195.795) sia di oltre il triplo superiore a quelle emiliano-romagnole (59.674), e chissenefrega se questi sussidi siano stati concepiti dalle autorità europee quale strumento per ridurre i divari esistenti tra le varie aree all’interno di ciascun paese membro.

Fatto sta che entro la fine dell’anno il Governo dovrà decidere il nuovo meccanismo di ridistribuzione delle risorse e, se passasse il principio nordista, la Campania per i prossimi due anni subirebbe uno “scippo” di 153 milioni di euro, la Sicilia di 124 e le altre regioni che contestano la misura, perderebbero circa 30 milioni ciascuna. Ad avvantaggiarsene soprattutto la Toscana, ma un po’ tutte le regioni del Nord …oramai specializzatesi in “variabili” per le appropriazioni indebite di stampo padano.