
Di qua dall’Atlantico è difficile seguirne in diretta il cerimoniale, soprattutto per chi ha la cattiva abitudine di svegliarsi presto al mattino, ma ai resoconti del Grammy Awards non ci si sottrae, così che un po’ tutti, leggeri o partecipi, ad ogni edizione vi tributiamo almeno un pizzico d’attenzione. Quest’anno ben più d’un pizzico per le Directioners di famiglia, entusiaste per l’assegnazione del premio di miglior album al ricercato, ma genuino glam pop che arreda la “Harry’s House” del loro (ma oramai anche nostro) Harry Styles.
La vera rivelazione di questa edizione è però indubitabilmente anche Samara Joy, una giovanissima voce del Jazz. 23 anni, la prima star della generazione Z, un talento che mostra d’aver raccolto l’eredità di Ella Fitzgerald, di Sarah Vaughan, di Nina Simone (le massime regine del Jazz) portandole fino al palco californiano dei Grammy grazie alla limpida potenza e all’elegante duttilità di una voce rarissima, libera, e straordinariamente esente da futili manierismi. Esagero? …provate ad ascoltarla cliccando qui: Can’t get out of this mood.
Ancora meglio è procurarsi il suo primo album “Linger Awhile”, dieci tracce per un repertorio classico rivisitato con decisa personalità a riscoprire Gershwin e Thelonoius Monk, a conquistarci con le splendide Nostalgia, Sweet pumpkin, Misty e Social call. Nella vittoria di Samara Joy, miglior artista emergente, c’è la grande tradizione afroamericana, c’e la profondità della radice familiare fatta dal gospel dei nonni e dal basso del papà, c’è il Bronx che l’ha vista nascere, ci sono gli amici del College impegnati nei medesimi interessi, e c’è l’influenza dei suoi maestri: il batterista Kenny Washington e soprattutto di un virtuoso che un mostro sacro come Pat Metheny ha definito “il miglior chitarrista che io abbia sentito in tutta la mia vita”, Pasquale Grasso, newyorkese di Ariano Irpino che tra calici di Fiano, con il suo trio, la scorsa estate ci ha presentato Samara in una indimenticabile serata di Umbria Jazz.