
Tra le esperienze che può capitare di fare, la lettura dei migliori romanzi distopici, è certamente una di quelle capaci d’interrogare e d’inquietare, di mettere sull’avviso dai pericoli verso cui corre la società presente e di accompagnare il lettore all’uscita dalle confort-zones edificate dal pensiero indolente.
Un genere, questo delle utopie indesiderabili, che ha salde radici nella prima metà del “secolo breve” in un’Europa scompigliata, dilaniata e poi in ricostruzione. Così è che lo Stato Unico della società perfetta descritta in “Noi” di Zamjatin e l’eugenetitica applicata ne “Il mondo nuovo” di Huxley, pubblicati tra il 1924 e il 1932, sono a ragione considerati capostipiti di un filone che, con le opere Orwelliane degli anni ‘40, “La fattoria degli animali” e “1984” su tutti, e con quelle di Bradbury (“Fahrenheit 451”) e di Golding (“Il signore delle mosche”) dei ’50 raggiungerà poi, dagli anni delle contestazioni a cavallo del 1968 fino ad oggi, la popolarità massima. Un giacimento ricchissimo di scrittori visionari e vigili, la cui sensibilità anticipa e approfondisce di gran lunga quella del senso comune, come è nei più recenti “Cecità” di Saramago, “La possibilità di un’isola” di Houellebecq e nella discriminazione sessuale imposta a parti invertite dalle “Ragazze elettriche” di Naomi Alderman.
A scorrere il parzialissimo elenco delle opere sopra citate parrebbe che il genere non abbia radici né epigoni in Italia, ma è questo un abbaglio bell’è buono, un’impostura. Provate ad addentrarvi nell’attualissimo “Il condominio di Via della Notte” della siciliana Maria Attanasio, avvertirete l’eco dei classici magistralmente declinati e vi ritroverete in compagnia di Rita Massa, la Fuoriluogo, catapultati a Nordìa in un futuro che va già facendosi presente, popolato di una società smemorizzata che basa su disciplina, ordine, sicurezza e morale il suo ferreo decalogo.
Ma, ancor di più, e proprio a fondamento della distopia moderna, ad anticipare Orwell di almeno un decennio, a interpretare in maniera visionaria il futuro dei totalitarismi a lui contemporanei è un altro autore, meridionale anch’esso: il troppo colpevolmente trascurato, Corrado Alvaro. Dello scrittore calabrese esce nel 1938 (l’anno delle leggi razziali in Italia) “L’uomo è forte” nel quale è restituito in un modernissimo, anonimo e alienante, ma moralmente arcaico, paesaggio metropolitano, l’amore “vietato” tra Dale e Barbara, il loro senso di “colpa”, in una società ammalata di “paura”, lacerata da una guerra civile tra fazioni e i cui gli individui interpretano un “ruolo” e talvolta “…muoiono perché sono fatti in un’altra maniera”. Una maniera inadeguata al nuovo sistema che li tiene ingabbiati.
Accanto a quello del mondo arcaico “dei contadini e della tradizione” e alle meravigliose pagine del suo originale meridionalismo, è necessario, oggi più che mai, riscoprire l’Alvaro cosmopolita, Padre nobile di quella distopia che ha in sé la capacità di mettere sull’avviso, di far comprendere e d’invitare al dissenso, poiché “…la disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile”.