Nel sito delle Poste italiane si legge: «… vennero utilizzati fino ad esaurimento i francobolli del Regno di Sardegna. Portavano l’effigie del Re Vittorio Emanuele II, diventato Vittorio Emanuele I Re d’Italia». È un errore, perché il re non volle cambiare la numerazione dinastica. Ed è più che documentato che il Regno delle Due Sicilie fu tragicamente conquistato, non essendoci colà alcuna voglia di unirsi ai piemontesi. In un altro capitolo si lascia intendere una presunta arretratezza del Regno delle Due Sicilie in campo postale, basandosi sui chilometri di strade ferrate e sulla presenza di briganti, dimenticando che: in Sicilia ci fu il primo telegrafo ad asta d’Italia, il primo telegrafo sottomarino d’Europa fu quello tra Reggio e Messina, meridionali furono il primo telegrafo elettrico, la prima linea regolare di diligenze e la prima convenzione postale marittima d’Italia. Quanto al brigantaggio, fu un prodotto dell’unificazione italiana: prima era stato della stessa portata degli altri Paesi.
Pietro Fucile
Caro Fucile, Spero che il sito delle Poste corregga rapidamente
l’errore. Il gesto che Vittorio Emanuele, per orgoglio dinastico,
rifiutò di fare, fu compiuto da Umberto che nel 1878, alla morte del
padre, accettò di essere il primo del suo nome.
Vedo tuttavia che anche lei, nel segnalare l’errore delle Poste
italiane, commette quello di rappresentare il Regno delle due Sicilie
come uno Stato moderno e progredito, rozzamente conquistato dalla
soldataglia piemontese e dalle teste calde di Garibaldi. È certamente
vero che le descrizioni del Regno borbonico furono per molto tempo,
prima e dopo il suo collasso, parziali e tendenziose.
Rispecchiavano la filosofia politica dei vincitori, i pregiudizi dei
liberali inglesi e i sentimenti dei molti esuli meridionali che erano
stati costretti ad abbandonare il loro Paese durante il regno di
Ferdinando II. Ma vi sono stati da allora studi importanti che hanno
esaminato attentamente lo stato delle finanze del regno meridionale alla
vigilia del suo collasso.
Uno dei migliori è probabilmente quello di Ruggero Moscati su «La fine
del regno di Napoli», apparso nel 1960 presso l’editore Le Monnier.
Moscati era napoletano, aveva studiato nell’università della sua città
con Michelangelo Schipa, aveva insegnato a Messina e a Roma, e fu negli
ultimi anni della sua vita presidente della Commissione per la
pubblicazione dei documenti diplomatici italiani. Era certamente
risorgimentale e unitario, nello spirito di altri intellettuali
meridionali da Benedetto Croce a Giustino Fortunato. Ma riconobbe che
Ferdinando II, dopo il 1848, lanciò un programma di modernizzazione del
Paese e fece «notevolissimi sforzi in vasti settori, soprattutto in
quelli della bonifica, della viabilità, dei lavori pubblici, del
riattamento dei porti, della introduzione del telegrafo». Nacquero così
due zone industriali concentrate intorno a Napoli e a Salerno.
Moscati constatò altresì che la pressione fiscale del Regno era lieve.
Ma il sistema industriale borbonico presentava alcuni inconvenienti. Era
protetto da un’alta barriera tariffaria, quindi poco competitivo e
ridotto, soprattutto nel settore dei tessili, a produzioni di modesta
qualità. Aveva costi di produzione elevati. Era sostenuto da capitali
stranieri piuttosto che nazionali. Sopravviveva soprattutto grazie alle
commesse dello Stato. Non aveva alle sue spalle una buona rete stradale e
porti collegati con i centri di produzione. Alle origini di queste
carenze vi era l’incubo del 1799, vale a dire il timore di una nuova
rivoluzione. Prigioniero della sua paura, Ferdinando scoraggiò la
nascita di una borghesia meridionale, soppresse la libertà di stampa e
di opinione, sottopose il Regno a un regime poliziesco e finì per
perdere i giovani più intelligenti e ambiziosi. Qualcosa di nuovo, per
la verità, fu tentato alla vigilia del 1860, ma era troppo tardi. Il
Regno delle Due Sicilie non fu «conquistato»: crollò su se stesso.
Sergio Romano